PIZZA? TRA MESSINA E PACHINO, TRA FOCACCE E SCACCE.
PIZZA? TRA MESSINA E PACHINO, TRA FOCACCE E SCACCE.
Fonte Foto: Antonino Rampulla
Sulla rivisitazione di Cracco della pizza margherita, l’ipercritico popolo dei social, costituito dalle geniali menti di lungimiranti economisti, navigati allenatori di calcio, colleghi tout court di Pico de Paperis ed esperti chef, dal solo sguardo distratto alle tante foto reperibili sul web dell’ormai celebre e discussa pietanza, ha mosso dubbi perfino sulla sua commestibilità…
Tuttavia, a prescindere dal tempo “perso” (non certamente per le sue tasche…) a sciorinare giudizi sulle prove dei concorrenti di Masterchef, esperienza che l’ha tanto distratto dai fornelli da costargli una stella Michelin, è probabile che la fama di Cracco in cucina (rigorosamente Scavolini, sia chiaro…) non sia dovuta solo al ruolo televisivo.
Mi chiedo quindi a che titolo possa proferir parola in merito anche chi al comunque abusato attributo gourmet riesce al massimo ad associare il Big Mac… E corollariamente mi chiedo come possano simili forme pseudo-culinarie aver preso piede nella patria del mangiar bene. Chiedo scusa (non senza un sottile velo d’ipocrisia) agli affezionati di un certo paninismo made in USA per il mio appena accennato snobbismo gastronomico.
Tornando alla pizza margherita dello chef stellato, l’equivoco, a mio fintamente modesto e profano avviso, nasce dalla più diffusa e comune idea di pizza. Se fossi napoletano mi sentirei derubato e offeso per la mistificazione del piatto più famoso della mia tradizione gastronomica, e non per la legittima rivisitazione di Cracco ma per certi obbrobri gastronomici che oltreoceano osano spacciare per pizza. E sì, il gastrofighettismo alla Allan Bay mi ha contagiato… In ogni caso, con buona pace dei napoletani, col termine pizza, l’uomo di mondo non si riferisce all’originaria verace napoletana, ma a qualunque panificato a base più o meno piatta.
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La mia personalissima idea è che col termine pizza ci si dovrebbe propriamente riferire alla sola verace pizza napoletana, preparata secondo il suo definito e preciso disciplinare, relativo a impasto, condimento e cottura. L’assurdità è che la stragrande maggioranza degli habitué di Domino’s e compagnia bella, non sempre riescono ad apprezzarla, preferendole le versioni industriali in cui nell’impasto c’è più strutto o margarina di acqua e farina. Fare la pizza napoletana non è facile e, a meno di non trovarsi a Napoli, raramente è possibile godere di una sua fedele riproduzione. Siamo così assuefatti da una certa idea di pizza da non avere gli strumenti palato-culturali per degustare l’originale. Qualche giorno fa ho potuto assaggiare la pizza napoletana di un locale storico, ma con nuova gestione, della città in cui vivo. Queste sono le testuali parole di un recensore su TripAdvisor, lette mentre curiosavo sulle ultime recensioni: “la pizza ha il bordo troppo largo, per cui ti ritrovi a mangiare una pizzetta!”
La pizzeria in questione, a mio sempre più o meno modestissimo parere, serve un’eccellente pizza (sic et simpliciter…) napoletana, con ovvio e gustosissimo cornicione pronunciato. È evidente che tale recensore non abbia idea di come si presenti una verace pizza napoletana. Certo, sempre meglio di chi, recensendo un ristorante di sushi, si è lamentato che il pesce fosse crudo…
Ma quanto è diffusa l’abitudine a non mangiare il “bordo” (per utilizzare la stessa terminologia dell’avventore medio), come se non fosse parte della pizza, come se fosse un inutile accessorio? Riesco a salvarmi in calcio d’angolo con un de gustibus non disputandum est e col fatto che spesso la pizza a lievitazione di mezzora non abbia proprio un cornicione invitante?
Alla luce del fatto assodato che il termine pizza abitualmente si associa a tutti i panificati a base piatta, schiacciata, Cracco ha quindi a pieno titolo potuto chiamare il suo piatto pizza. Col senno di poi si è rivelata la scelta di marketing più azzeccata, soprattutto per l’eco commerciale che ha ottenuto anche grazie alla propaganda gratuita degli haters di turno.
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Mi chiedo però la ragione per cui in Sicilia, così come per quanto fatto con l’arancino/a e per la granita (non a caso differenti e distinguibili, ad esempio, dal supplì e dalla grattachecca romane), non abbiamo “turisticamente” puntato sul proporre le tradizionali pizze siciliane come, ad esempio, lo sfinciuni palermitano, la focaccia messinese, la schiacciata catanese, il pizzòlu di Solarino e Sortino o la scaccia ragusana, invece di riempire i nostri lungomare quasi esclusivamente di pizzerie, servendo una versione molto commerciale di pizza (più pratica, meno impegnativa e costosa dell’originale napoletana). Ci sono delle eccezioni. Ad esempio nel messinese sono diffusissime le focaccerie. Però è anche vero che i loro clienti abituali sono gli stessi messinesi e solo in minima parte i turisti.
A Marzamemi mi piacerebbe leggere fra le tante insegne fronte mare anche un coraggioso e siciliano scacceria… Tuttavia se lo stesso Cracco non ha osato, ad esempio, un focaccia margherita, figuriamoci chi ha innanzitutto l’esigenza di pagare in fretta bollette e personale.
La tradizione pachinese ha sempre e solo parlato di scaccia e scacciuni, non di pizza. Il massimo dell’esotismo terminologico è rappresentato da pizza muddiata. Si tratta in ogni caso di focacce concettualmente diverse dalla pizza napoletana per impasto e cottura, dal condimento molto semplice (combinando comunque ingredienti popolari di facile reperibilità quali pomodoro, aglio, pecorino grattugiato, olio, origano, sale, acciughe e olive).
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Questa, se vi va di provare, è la mia versione di scaccia pachinese, imbastardita da un elemento onnipresente nella cucina messinese, la tuma.

L’impasto

Per un chilo d’impasto utilizzo generalmente 400 grammi di una farina 0 particolarmente forte (la Manitoba va bene), abbinata a 100 grammi di Russello (una semola ragusana), 100 grammi di Tumminia (un’integrale trapanese), 400 grammi d’acqua minerale a circa 27°, 5 grammi di lievito di birra, 15 grammi di sale e 15 di zucchero. Lascio riposare l’impasto ottenuto per 20-30 minuti, che comincerà a modificarsi mediante autolisi, trascorsi i quali aggiungo 15 grammi d’olio extravergine d’oliva (ovviamente, siciliano), il quale conferisce più sapore e maggiore elasticità e uniformità alle maglie glutiniche in formazione. Durante la maturazione dell’impasto, per almeno 24 ore, eseguo 5-6 volte le pieghe (ma non oltre 4 ore prima del suo utilizzo). Con pieghe si intende il ripiegare su sé stesso l’impasto per almeno 4 volte e in direzioni diverse, così da rilasciare i gas prodotti durante la lievitazione, immettere nuovo ossigeno e rimettere in moto il processo di lievitazione.

La farcitura

Dopo aver steso, rigorosamente a mano, l’impasto, per prima cosa metto dell’aglio tritato, delle acciughe finemente tagliate, la tuma tagliata a dadini che copro con del pomodoro fresco (tagliato ovviamente a piccoli pezzi e condito con sale e olio) cosicché funga da protezione rispetto al calore che tenderebbe a bruciarla prima del termine della cottura. Aggiungo infine olive, pecorino grattuggiato e origano.

La cottura

Quando non posso usufruire d’altri mezzi che del classico forno elettrico “casalingo”, seleziono il massimo della temperatura e cuocio su pietra refrattaria aspettando, prima di infornare, dieci minuti dopo che il forno abbia raggiunto la temperatura selezionata (in modo da riscaldare per bene la pietra). La scaccia è pronta quando il cornicione comincia a imbrunirsi.
Fonte Testo: Antonino Rampulla
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