LA MIA FOCACCIA…SICILIANA
LA MIA FOCACCIA…SICILIANA
Fonte Foto: Antonino Rampulla
Culinariamente cresciuto tra Messina e Pachino, dilettandomi tra forni e fornelli, ho per forza di cose sviluppato una visione sincretica della cucina siciliana, in special modo dei prodotti panari. La cucina regionale è infatti estremamente varia e differente da provincia a provincia. La ragione è storica: vari e differenti sono stati gli influssi culturali delle tante dominazioni susseguitesi e accavallatesi, le quali hanno più o meno contaminato determinate zone della Sicilia. Complicato identificare un chiaro filo conduttore tra il cous cous trapanese, la scaccia ragusana, la cipollina catanese, la pasta con le sarde palermitana e le braciole messinesi. Un tour culinario della Sicilia si rivelerebbe talmente ricco e complesso da non scontentare nessun palato. Tuttavia non bisogna stupirsi se in una rosticceria messinese non potrete mai assaggiare una scaccia ragusana e in una macelleria ragusana nessuno vi servirà mai delle braciole messinesi…
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Pachino attinge la sua tradizione culinaria più dal territorio ragusano che siracusano, nonostante si trovi in provincia di Siracusa…pardon, nel libero consorzio comunale di Siracusa. Da originaria colonia esclusivamente maltese (per decreto regio) si è successivamente popolata soprattutto di famiglie provenienti da paesi d’influenza ragusana, ad esempio da Ispica e Scicli. Non a caso anche il dialetto pachinese è più simile al ragusano che al siracusano. Pachino nasce nel XVIII secolo come paese agricolo e si sviluppa come tale, eccellendo nella produzione di uva e ortaggi di indiscussa qualità. Tuttavia, lì dove le ristrettezze economiche e la fatica del lavoro nei campi non lasciano troppo spazio alla cura di interessi extra lavorativi, può esserci solo una limitata sperimentazione e innovazione culinaria, aspetto che cammina pari passo con la crescita culturale. Al contrario, Messina affonda le radici in epoca greca ed è sempre stata una città dall’ampio respiro culturale. Le elargizioni di particolari privilegi e autonomie alla “città dello Stretto” da parte delle “dominazioni” susseguitesi in Sicilia, confermano quanto la classe nobiliare messinese fosse politicamente rilevante e tenuta in gran conto, fattore che ha permesso all’economia di Messina di prosperare almeno fino al 1908 (infausto anno del sisma che la rase al suolo). E dove c’è ricchezza sussistono le condizioni affinché la cultura e l’arte, anche culinaria, prosperino.
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Tuttavia le grandi città siciliane, ovviamente, non sono state esclusivamente sede di nobili e ricchi. Il sostrato popolare messinese, che certamente non poteva permettersi pesce spada alla ghiotta ogni giorno, ha tramandato espressioni culinarie “povere”, figlie più della necessità di sfamarsi che della ricerca di un gusto raffinato, quindi pietanze analoghe e assimilabili alla cultura del cibo “contadino” di paesi come Pachino.
La focaccia messinese, ne è un esempio. Si tratta di un prodotto panario condito con quegli ingredienti che ogni messinese in tempi di magra riusciva comunque a procurarsi, ossia tuma (tecnicamente la prima fase di lavorazione del pecorino, quindi un formaggio fresco, non stagionato), scarola riccia (una verdura detta anche indivia nella penisola) e acciughe sott’olio. Nel novecento la focaccia messinese si è arricchita di pomodoro tagliato a pezzi, evolvendosi nella forma oggi conosciuta. Altro protagonista panario emblematico della tradizione culinaria popolare messinese è il cosiddetto pitone, termine che in realtà è una storpiatura dell’originario dialettale piduni, ossia “grosso piede”. Si tratta in soldoni di una sorta di calzone fritto (ma con impasto non lievitato), condito con i medesimi ingredienti della focaccia.
A Pachino, il ruolo della focaccia e dei pitoni messinesi è recitato dalla pizza muddiata, ossia una sorta di focaccia con impasto ad alta idratazione, dai caicchi e dai votavota. Caicchi e votavota sono invece assimilabili a calzoni al forno, tradizionalmente conditi con salsiccia, broccoli e cipolle, baccalà, patate e cipolle, prezzemolo, pomodoro, acciughe e…cipolle.
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Alla luce della mia frequentazione con entrambi gli “ambienti culinari”, ho cercato sintetizzare le idee di fondo in una versione personale di focaccia che semplicemente definirei siciliana.

L’impasto

Per un chilogrammo di impasto utilizzo tre “tipologie” di farina: 400 grammi di Manitoba (o comunque una farina “0” di grano tenero particolarmente forte), 100 grammi di Russello e 100 grammi di Tumminia (entrambi antichi grani duri siciliani, la prima una classica semola, la seconda assimilabile a un’integrale) che impasto in 400 grammi di acqua minerale a circa 25-27 gradi centigradi, con 5-10 grammi di lievito di birra fresco, 15 grammi di zucchero e 15 di sale. Appena l’acqua risulta completamente assorbita (in ogni caso, in questa fase, l’impasto rimane un po’ appiccicoso), lo lascio riposare per circa 20 minuti, coprendolo con un panno pulito.
Trascorsi i 20 minuti aggiungo 15-20 grammi di olio extravergine d’oliva, ripiegando l’impasto più volte su se stesso, fin quanto l’olio non è completamente assorbito e l’impasto questa volta risulta liscio, quasi per nulla appiccicoso ed elastico (alla lieve pressione di un dito l’impasto dove tornare al punto originario).

Faccio lievitare (e maturare) quest’impasto per circa 24 ore, in una ciotola coperta da un panno, a temperatura ambiente (in estate però, in relazione al caldo, lo metto in frigorifero dalle 12 alle 20 ore), lontano da correnti d’aria e luce diretta del sole (preferibilmente in un ambiente chiuso e almeno in penombra). Trattandosi di un impasto a idratazione medio-alta (67-70%) eseguo le pieghe, ossia ripiego più volte la pasta su se stessa, ogni 3-4 ore (chiaramente, a meno di non puntarvi la sveglia nel cuore della notte, nei limiti del possibile…) ma non oltre la ventesima ora: in questo modo, in soldoni, si rimette in moto il processo di lievitazione, evitando che l’impasto “collassi” e, collateralmente, si asciughi esternamente.

Per stenderlo, getto della semola sul piano di lavoro e adagio delicatamente l’impasto su di esso. Cospargo di semola anche l’impasto e delicatamente premo al centro dell’impasto con le dita e il palmo della mano, facendo in modo che l’impasto si espanda verso l’esterno (curandomi di non far fuoriuscire l’“aria” immagazzinata) e assuma forma discoidale. A questo punto lo divido in quattro parti, ottenendo così “panetti” da 250 grammi. Tali “panetti” li stendo rigorosamente a mano, assolutamente senza l’ausilio del mattarello, assecondando la loro fisiologica propensione a mantenere la forma acquisita se l’impasto viene distribuito gradualmente. Per espanderli maggiormente utilizzo la tecnica a “schiaffo” tipica dei pizzaioli napoletani.

Il condimento

Vi suggerisco di provare un condimento “siciliano” che a me piace moltissimo: broccoli, tuma e salsiccia.
Mettete a bollire in acqua salata un chilo broccoli (quelli verdi, per intenderci) e scolateli quando una forchetta riesce facilmente a infilzare il gambo. Fateli raffreddare e tagliateli grossolanamente. Fate soffriggere una cipolla (tritata a coltello) in un po’ di olio extravergine d’oliva, avendo cura di tenere la fiamma molto bassa, cosicché l’olio e la cipolla non brucino. Tagliate più o meno a rondelline mezzo chilo di salsiccia messinese condita. Aggiungetela al soffritto, alzando lievemente la fiamma. Rosolata lievemente la salsiccia, aggiungete i broccoli e, aiutandovi con cucchiaio di legno, schiacciateli e saltateli brevemente col resto del condimento. Regolate di sale. Tagliate finemente due o tre etti di tuma e riponetela in una ciotola.

La cottura

Questo tipo di impasto l’ho testato sia nel mio “casalingo” forno elettrico su pietra refrattaria (quindi a 250 gradi), sia nel forno a legna di mia nonna, sempre su pietra refrattaria (a 320 gradi). Funziona in entrambi i casi, ma sconsiglio cotture a temperature inferiori.
Se utilizzate un forno elettrico “casalingo”, infornate solo dopo che il forno avrà raggiunto il massimo della temperatura, assolutamente non prima. I 250 gradi che può raggiungere un forno casalingo rappresentano il “minimo sindacale” (e rimangono comunque pochini). Se quindi (realisticamente) utilizzate un forno “casalingo”, aggiungete la tuma solo un paio di minutini prima del termine della cottura, altrimenti i relativamente lunghi tempi di cottura necessari a 250 gradi, la farebbero bruciare. La focaccia è pronta quando il cornicione ai bordi comincia a “imbrunirsi”.

E se il bon ton ancora lo consente, buon appetito!
Fonte Testo: Antonino Rampulla
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